Emiliano Ponzi
Lui è un acclamato illustratore italiano. Con il suo talento e la sua tenacia è riuscito a realizzare il “sogno americano”. Ma definire Emiliano Ponzi solo in questi termini sarebbe riduttivo. Oltre a svegliarsi tutte le mattine all’alba, azzardare inedite collaborazioni e sperimentare la virtual reality, Emiliano trova anche il tempo di insegnare. E, come se non bastasse, è anche autore dei propri libri.
Emiliano, prima di decollare come illustratore e riscuotere consensi nel panorama internazionale, sei cresciuto in Emilia-Romagna. Quando e come hai scoperto che carta, matita e colori sarebbero diventati i tuoi migliori amici per la vita?
Avrei probabilmente voluto iscrivermi al liceo artistico ma in quegli anni di formazione anche i genitori hanno un ruolo importante nella scelta delle scuole superiori. Durante il liceo frequentavo privatamente dei corsi di disegno e fumetto: la sera dopo aver studiato andavo a disegnare. Talvolta i corsi si tenevano in luoghi un po’ particolari, come una cabina di legno in mezzo alla campagna, dove, per scaldarci d'inverno, si usava una stufa a gas di dubbia sicurezza e si creava talmente tanta nebbia che ogni forma lì presente si scopriva facendo un passo alla volta. Guardando ora quella scelta, in prospettiva sono molto contento di come sono andate le cose. Le tecniche le ho imparate successivamente, mentre il metodo analitico, l'approccio a qualsiasi tipo di problema (dai massimi sistemi a come disegnare un concetto) l'ho ereditato proprio da quel tipo di studio più "classico".
Passo tutto il giorno a disegnare perché così, quando la sera arriva, mi sento sazio.
Dopo il diploma al liceo classico, scelta per altro inusuale per chi opera nel tuo campo, alla fine degli anni ’90 ti sei trasferito a Milano per inseguire i tuoi sogni. Raccontaci la tua esperienza come giovanissimo illustratore alle prime armi ed in una nuova città.
Non è stato facilissimo all'inizio. Una volta finito l'istituto Europeo di Design la "carriera" era tutta da costruire. Ci sono state tante sensazioni in mezzo: insicurezza, paura, desiderio di dimostrare quello che si è in grado di fare sapendo che era ancora poco. Quella che viene definita "gavetta" non sono altro che i tentativi riusciti e falliti di iniziare un percorso e di costruire una qualche forma di esperienza che funzioni un po’ da fondamenta, per poi andare avanti con i propri piani. E tutto questo processo prosegue parallelamente ad una crescita personale, culturale...la conoscenza di sé.
Con quali parole definiresti la tua arte a chi ha l’occasione di incontrarti per la prima volta?
È una domanda molto complessa. Una risposta semplice come "l'illustratore" forse banalizzerebbe un po’. Mi piacerebbe rispondere qualcosa di questo tipo: "passo tutto il giorno a disegnare perché così, quando la sera arriva, mi sento sazio".
Se dovessi disegnare un tuo autoritratto, con quale colore ti dipingeresti?
Sceglierei un colore molto chiaro e uno molto scuro: il contrasto prima di tutto perché siamo fatti di luci e ombre.
Il potere di un’immagine consiste nel comunicare un messaggio e nell’evocare connessioni mentali spontanee e immediate. Le tue illustrazioni mi ricordano da una parte le atmosfere rarefatte della pittura metafisica, dall’altra il tratto netto tipico dei fumetti. Quali sono state le correnti artistiche o gli autori per te più illuminanti?
Ogni forma di arte visiva può essere una fonte di ispirazione. Dalle atmosfere di Hopper alla grafica del Bauhaus. Per me è affascinante sia la pura tecnica sia l’intravedere la volontà comunicativa di un artista e quindi la sua visione del mondo. Amo Hockney, Alex Katz, Kerry James Marshall ma anche Gorge Condo, Antonio Sant'Elia, i manga giapponesi, il fumetto italiano contemporaneo e passato.
La capacità di raccontare una storia accomuna l’illustrazione ad altre discipline dell’immagine e della parola. Che rapporto intrattieni con la cinematografia e con la letteratura?
In quasi tutti i lavori che faccio si parte comunque da un testo: l'arte applicata dell'illustrazione è la capacità di capire e decodificare quel testo, essere alchimisti e tramutarlo in forme. Dunque la parola è molto importante. Sono stato anche autore di due dei picture book che ho illustrato: "The Journey of the Penguin" per Penguin Book USA e "The Great New York Subway Map" per il Moma Museum di New York. La parte più complessa consiste nel trovare il tono di voce per parlare ad un certo tipo di lettore che è auspicabile avere in mente. La scrittura, come insegnano i grandi scrittori, ma anche i grandi editor delle case editrici, è una costruzione attenta dei passaggi logici. È la capacità di illuminare al momento giusto.
La tua prima monografia “10×10”, edita da Corraini nel 2011, è andata esaurita anche nella seconda ristampa. Ti saresti mai aspettato questo eco? Come per uno scrittore a volte è complicato reggere il confronto con i propri precedenti successi bibliografici e andare incontro a crisi, anche per l’illustratore superare sé stessi fa parte della sfida ma anche del “rischio” del mestiere?
“10x10” è stata una scommessa che è andata molto bene. Ogni libro che realizzo e che ho realizzato è sempre diverso dal precedente, per forma e per target, quindi è difficile fare un parallelismo con uno scrittore immaginando l’attività di un romanziere. Per ogni singolo progetto la misura del" successo" si basa sul grado di valutazione personale: quanto ne sono soddisfatto? Cosa ho imparato? Quanta evoluzione posso vedere se confronto le immagini dell'anno corrente con quelle realizzate lo scorso anno?
Il tuo portfolio parla italiano ma anche tanto inglese (o meglio americano), dalle commissioni per The New York Times, The New Yorker, Washington Post, ai libri da te illustrati, di cui cito The Great New York Subway Map e American West. Ma che cosa significa veramente per te l’America?
L'America ha indottrinato il mondo, tra moda, cinema, lifestyle. Lo ha fatto fin da subito e si è venduta benissimo. Quindi c'è un po’ di sogno americano in ognuno di noi. È abbastanza difficile guardare gli USA dall'alto verso il basso ma anzi è verosimile il contrario. Un Paese che rappresenta una terra promessa pagana, un mondo sconfinato che incarna in parte l'ambizione massima dell'uomo dove "tutto" è potenzialmente possibile. Anche per me significa questo: un cielo più grande da guardare.
Con "Imaginary Journey” il tema del viaggio ritorna. Nel 2019 hai ideato per Mandarina Duck una capsule collection di valigie. Si tratta di una collaborazione nuova e lontana dal tradizionale mondo editoriale. Com’è stato lavorare per una realtà come la moda?
Lavorare per l'editoria, la moda o la pubblicità in parte non è diverso. Quello che porta alla genesi di un'immagine, al di là della sua destinazione ultima, è sempre il risultato dello stesso modus operandi. Il metodo è il comune denominatore. Quella con Mandarina Duck è stata un'esperienza nuova e anche molto virtuosa: anche qui sono partito dalla scrittura, dal capire qual era il mio audience e come poter al meglio interpretare il suo desiderio di viaggio durante i mesi primaverili ed estivi. E poi è stato bellissimo vedere i disegni declinati su tutta la linea di valige, borse e zaini.
Ti capita di viaggiare spesso, ma qual è il kit fondamentale senza cui un illustratore non può sopravvivere?
Notes, matita e melatonina!
Un altro progetto recente e originale è “Live sketching on the road”, parte di Ulisse Fest (il festival del viaggio di LonelyPlanet, ndr) e consistente in una serie di workshop di disegno dal vivo. Innanzitutto come ti trovi in veste di maestro? E qual è la lezione fondamentale che insegni agli studenti che partecipano ai tuoi corsi?
Insegnare è sempre una grande responsabilità perché quello che funziona per te non funziona magari per un altro. Quando la docenza è sulle tecniche è tutto molto più semplice ma quando si tratta di insegnare l'ispirazione, il filtro con cui guardare il mondo, è tutto un altro approccio. Cerco sempre di spiegare il mio modo di pensare o comunque cerco di spingere verso la costruzione di un metodo, che possa anche essere bizzarro purché abbia un senso.
Hai iniziato i tuoi studi quando internet era ancora in fase di gestazione. Ad oggi, nell’epoca della digital transformation, come è cambiato il lavoro di un artista visuale? Hai già avuto modo di elaborare progetti che integrino arte e tecnologia?
Oltre a realizzare delle illustrazioni commissionate per piattaforme social mi è già capitato più volte di lavorare con la virtual reality. È molto interessante e l'interazione tra il maker e il fruitore è sempre più stretta, quasi intima.
Raccontaci come si snoda la tua giornata lavorativa tipo.
Come un impiegato sotto regime sovietico (ma per scelta, non per costrizione): sveglia attorno alle 6/6:30, colazione, lettura veloce dei giornali online italiani e internazionali; porto il cane al parco, vado in studio, lavoro fino alle 13; pranzo, lavoro di nuovo fino alle 20, aperitivo fuori, cena fuori; poi torno a casa, leggo oppure guardo Netflix.
Capitolo moda. Quale look meglio rappresenta la tua personalità?
Mi vesto abbastanza come se indossassi una divisa. Un po’ per pigrizia e un po’ perché vestirsi con i colori mi risulta complesso. Quindi preferisco il total black oppure il nero con solo un po’ di bianco.
Chiudiamo l’intervista toccando le corde emotive. Qual è il tuo più grande sogno?
I sogni cambiano ogni notte, lo scopriremo domattina.
Insegnare come illustrare è sempre una grande responsabilità perché quello che funziona per te non funziona magari per un altro. Cerco sempre di spiegare il mio modo di pensare o comunque cerco di spingere verso la costruzione di un metodo, che possa anche essere bizzarro purché abbia un senso.